• Maggio 2019

Papa Francesco: Costituzione Apostolica EPISCOPALIS COMMUNIO sul Sinodo dei Vescovi

1. La comunione episcopale (Episcopalis communio), con Pietro e sotto Pietro, si manifesta in modo peculiare nel Sinodo dei Vescovi, che, istituito da Paolo VI il 15 settembre 1965, costituisce una delle più preziose eredità del Concilio Vaticano II[1]. Da allora in poi il Sinodo, nuovo nella sua istituzione ma antichissimo nella sua ispirazione, presta un’efficace collaborazione al Romano Pontefice, secondo i modi da lui stesso stabiliti, nelle questioni di maggiore importanza, quelle cioè che richiedono speciale scienza e prudenza per il bene di tutta la Chiesa. In tal modo il Sinodo dei Vescovi, «rappresentando tutto l’Episcopato cattolico, manifesta che tutti i Vescovi sono partecipi in gerarchica comunione della sollecitudine della Chiesa universale»[2].

Nel corso di oltre cinquant’anni, le Assemblee del Sinodo si sono rivelate un valido strumento di conoscenza reciproca tra i Vescovi, preghiera comune, confronto leale, approfondimento della dottrina cristiana, riforma delle strutture ecclesiastiche, promozione dell’attività pastorale in tutto il mondo. In questo modo, tali Assemblee non si sono soltanto configurate come un luogo privilegiato di interpretazione e recezione del ricco magistero conciliare, ma hanno anche offerto un notevole impulso al successivo magistero pontificio.

Pure oggi, in un momento storico in cui la Chiesa si introduce in «una nuova tappa evangelizzatrice»[3], che le chiede di costituirsi «in tutte le regioni della terra in uno “stato permanente di missione”»[4], il Sinodo dei Vescovi è chiamato, come ogni altra istituzione ecclesiastica, a diventare sempre più «un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione»[5]. Soprattutto, come auspicava già il Concilio, è necessario che il Sinodo, nella consapevolezza che «il compito di annunciare dappertutto nel mondo il Vangelo riguarda primariamente il Corpo episcopale», si impegni a promuovere «con particolare sollecitudine l’attività missionaria, che è il dovere più alto e più sacro della Chiesa»[6].

2. È provvidenziale che l’istituzione del Sinodo dei Vescovi sia avvenuta nel contesto dell’ultima assise ecumenica. Infatti il Concilio Vaticano II, «seguendo le orme del Concilio Vaticano I»[7], ha approfondito nel solco della genuina Tradizione ecclesiale la dottrina sull’Ordine episcopale, concentrandosi in particolar modo sulla sua sacramentalità e sulla sua natura collegiale[8]. È apparso così definitivamente chiaro che ciascun Vescovo possiede simultaneamente e inseparabilmente la responsabilità per la Chiesa particolare affidata alle sue cure pastorali e la sollecitudine per la Chiesa universale[9].

Questa sollecitudine, che esprime la dimensione sovradiocesana del munus episcopale, si esercita in modo solenne nella veneranda istituzione del Concilio ecumenico e si esprime pure nell’azione congiunta dei Vescovi sparsi su tutta la terra, azione che sia indetta o liberamente recepita dal Romano Pontefice[10]. Non si può poi dimenticare che compete a quest’ultimo, secondo i bisogni del Popolo di Dio, individuare e promuovere le forme attraverso le quali il Collegio episcopale possa esercitare la propria autorità sulla Chiesa universale[11].

Nel corso del dibattito conciliare, di pari passo con la maturazione della dottrina sulla collegialità episcopale, è emersa pure a più riprese la richiesta di associare alcuni Vescovi al ministero universale del Romano Pontefice, nella forma di un organismo centrale permanente, esterno ai Dicasteri della Curia Romana, che fosse in grado di manifestare, anche al di fuori della forma solenne e straordinaria del Concilio ecumenico, la sollecitudine del Collegio episcopale per le necessità del Popolo di Dio e la comunione fra tutte le Chiese.

3. Accogliendo tali sollecitazioni, il 14 settembre 1965 Paolo VI preannunciò ai Padri conciliari, radunati per la sessione di apertura del quarto periodo del Concilio ecumenico, la decisione di istituire di propria iniziativa e con propria potestà un organismo denominato Sinodo dei Vescovi, il quale, «composto di Presuli, nominati per la maggior parte dalle Conferenze Episcopali, con la Nostra approvazione, sarà convocato, secondo i bisogni della Chiesa, dal Romano Pontefice, per sua consultazione e collaborazione, quando, per il bene generale della Chiesa, ciò sembrerà a lui opportuno».

Nel motu proprio Apostolica sollicitudo, promulgato l’indomani, lo stesso Pontefice istituiva il Sinodo dei Vescovi, affermando che esso, «per il quale Vescovi scelti nelle varie parti del mondo apportano al supremo Pastore della Chiesa un aiuto più efficace, viene costituito in maniera tale che sia: 1) una istituzione ecclesiastica centrale; 2) rappresentante di tutto l’Episcopato cattolico; 3) perpetua per sua natura; 4) quanto alla sua struttura, svolgente i suoi compiti in modo temporaneo e occasionale»[12].

Il Sinodo dei Vescovi, che nel nome si collegava idealmente all’antica e ricchissima tradizione sinodale della Chiesa, tenuta in grande onore soprattutto nelle Chiese d’Oriente, avrebbe avuto normalmente funzione consultiva, offrendo al Romano Pontefice, sotto l’impulso dello Spirito Santo, informazioni e consigli circa le varie questioni ecclesiali. Al tempo stesso, il Sinodo avrebbe potuto godere anche di potestà deliberativa, qualora il Romano Pontefice avesse voluto conferirgliela[13].

4. Paolo VI, all’atto di istituire il Sinodo come «speciale consiglio permanente di sacri Pastori», si dichiarava consapevole che esso, «come ogni istituzione umana, col passare del tempo potrà essere maggiormente perfezionato»[14]. A tale successivo sviluppo hanno concorso, da un lato, la progressiva recezione della feconda dottrina conciliare sulla collegialità episcopale e, dall’altro, l’esperienza delle numerose Assemblee sinodali celebrate nell’Urbe a partire dal 1967, anno nel quale veniva pubblicato anche un apposito Ordo Synodi Episcoporum.

Anche dopo la promulgazione del Codice di diritto canonico e del Codice dei Canoni delle Chiese orientali, che hanno integrato nel diritto universale il Sinodo dei Vescovi[15], quest’ultimo ha continuato a evolversi gradualmente, fino all’ultima edizione dell’Ordo Synodi, promulgata da Benedetto XVI il 29 settembre 2006. In modo particolare, è stata istituita e via via rafforzata nelle proprie funzioni la Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi, composta dal Segretario Generale e da uno speciale Consiglio di Vescovi, affinché la costitutiva stabilità del Sinodo stesso fosse meglio assicurata nel tempo compreso tra le diverse Assemblee sinodali.

In questi anni, constatando l’efficacia dell’azione sinodale di fronte alle questioni che richiedono un intervento tempestivo e concorde dei Pastori della Chiesa, è cresciuto il desiderio che il Sinodo diventi ancor più una peculiare manifestazione e un’efficace attuazione della sollecitudine dell’Episcopato per tutte le Chiese. Già Giovanni Paolo II ha affermato che «forse questo strumento potrà essere ancora migliorato. Forse la collegiale responsabilità pastorale può esprimersi nel Sinodo ancor più pienamente»[16].

5. Per tali ragioni, fin dall’inizio del mio ministero petrino ho rivolto una speciale attenzione al Sinodo dei Vescovi, fiducioso che esso potrà conoscere «ulteriori sviluppi per favorire ancora di più il dialogo e la collaborazione tra i Vescovi e tra essi e il Vescovo di Roma»[17]. Ad animare quest’opera di rinnovamento dev’essere la ferma convinzione che tutti i Pastori sono costituiti per il servizio al Popolo santo di Dio, al quale essi stessi appartengono in virtù del sacramento del Battesimo.

È certamente vero, come insegna il Concilio Vaticano II, che «i Vescovi quando insegnano in comunione con il Romano Pontefice devono essere da tutti ascoltati con venerazione quali testimoni della divina e cattolica verità; e i fedeli devono accordarsi con il giudizio del loro Vescovo dato a nome di Cristo in materia di fede e di morale, e aderirvi con il religioso ossequio dello spirito»[18]. Ma è altrettanto vero che «la vita della Chiesa e la vita nella Chiesa è per ogni Vescovo la condizione per l’esercizio della sua missione d’insegnare»[19].

Così il Vescovo è contemporaneamente maestro e discepolo. Egli è maestro quando, dotato di una speciale assistenza dello Spirito Santo, annuncia ai fedeli la Parola di verità in nome di Cristo capo e pastore. Ma egli è anche discepolo quando, sapendo che lo Spirito è elargito a ogni battezzato, si pone in ascolto della voce di Cristo che parla attraverso l’intero Popolo di Dio, rendendolo «infallibile in credendo»[20]. Infatti, «la totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il Popolo, quando “dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici”, mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale»[21]. Il Vescovo, per questo, è insieme chiamato a «camminare davanti, indicando il cammino, indicando la via; camminare in mezzo, per rafforzare [il Popolo di Dio] nell’unità; camminare dietro, sia perché nessuno rimanga indietro, ma, soprattutto, per seguire il fiuto che ha il Popolo di Dio per trovare nuove strade. Un Vescovo che vive in mezzo ai suoi fedeli ha le orecchie aperte per ascoltare “ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (Ap 2, 7) e la “voce delle pecore”, anche attraverso quegli organismi diocesani che hanno il compito di consigliare il Vescovo, promuovendo un dialogo leale e costruttivo»[22].

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