Lei è suor Rita Giaretta, l’orsolina del Sacro Cuore di Maria di Vicenza che, nel 1995, raggiunse Caserta per realizzare per prima, con tre consorelle, il contrasto alla tratta delle africane finite sulle nostre strade a saziare gli appetiti dei maschi italiani.
Loro sono le ragazze strappate alla schiavitù costruita sui debiti contratti per venire in Europa, sulla sottrazione dei documenti da parte dei criminali della mafia nigeriana e sulla sottomissione con il voodoo alle madame.
Casa Rut è al primo piano di un palazzo nel centro della città, tre appartamenti uniti in un unico ambiente e una piccola cappella per pregare, le stanze confortevoli e nell’aria l’odore della pancetta che sfrigola quasi pronta per la pasta alla carbonara, una ragazza che fa i compiti per imparare l’italiano sulla terrazza piena di fiori e il telefono che squilla per dare conto della salute di un bimbo in ospedale: «All’inizio i vicini non ci volevano, adesso vengono qui a fare le riunioni di condominio, affidano alle nostre ospiti i loro bimbi e i loro anziani», dice con un sorriso suor Rita. Che sorride meno quando pensa all’Italia di oggi: «Non mi piace chi, nella vita pubblica, fabbrica la paura e alimenta il rancore per interesse politico e chi non predispone soluzioni razionali prima che umane ai problemi del nostro tempo».
Suor Rita è a capotavola. Alla sua destra c’è suor Assunta. Alla sua sinistra ci sono io. Davanti a me sono sedute – serie e sorridenti, compite e silenziose – Maty, Maris, Mercy, Joy e Stella. Dal mio lato della tavolata si trovano suor Nazarena, una giovane americana di nome Elena e Sara, operatrice di Casa Rut e della New Hope, la cooperativa sociale in cui queste donne tagliano e cuciono i tessuti africani trasformandoli in borse e zaini, teli per il mare e cappelli perché lasciare la strada è solo il primo passo, altrettanto importante è avere una occupazione, non solo la verità ma anche il lavoro renderà tutti liberi. «Prendere i pezzi, armonizzarne i colori e cucirli – spiega suor Rita – è un lavoro ma è anche una metafora delle loro vite che vanno ricomposte e rammendate».
Il cibo è cucinato da Honey, una di loro. Le portate vengono collocate su un carrello. Ci serviamo da soli. La pasta alla carbonara è deliziosa, con una pancetta affumicata delicatissima. Suor Assunta versa acqua minerale a me e vino a suor Rita, che quasi mi strizza l’occhio: «Siamo venete, il vino ci piace».
Sono passati ventitré anni dall’arrivo a Caserta. «Scendemmo in due in pulmino da Vicenza nel marzo del 1995. Era la prima volta che io lasciavo il Veneto. Il programma della Conferenza Episcopale Italiana di quel decennio era orientato all’amore preferenziale per i poveri. Il vescovo di Caserta era Raffaele Nogaro, il “padre dei migranti”. L’anno prima c’era stato l’incendio del ghetto di Villa Literno. La chiesa di monsignor Nogaro era una chiesa che si sporcava le mani con la realtà dedicandosi alle “creature del bisogno”. Era molto simile alla chiesa di papa Francesco in cui tanto mi riconosco e che tanto amo. Nogaro ci appoggiò in tutto. E apprezzò il nostro atteggiamento: non volevamo né insegnare né imporre dall’alto nulla a nessuno».
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