Briefing Sinodo. Padre Sosa: essere popolo di Dio e comunità

Barbara Castelli – Città del Vaticano
La “collegialità nella Chiesa” esprime sempre di più la propria “ricchezza”, passo dopo passo. Certo ci sono “segni di malessere”, e “qualcosa cambierà”, ma questo di cui stiamo parlando è il “Sinodo dei Vescovi”. Così padre Arturo Sosa Abascal, preposito generale della Compagnia di Gesù, intervenendo al briefing in Sala Stampa Vaticana sulla XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, sul tema: “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. Il gesuita, solleticato da una domanda sull’eventualità di consentire il voto anche alle donne che stanno partecipando al Sinodo, ha chiarito che “il modello” auspicato dal Concilio Vaticano II “con il popolo di Dio al centro ancora non si è pienamente incarnato nella storia”, ma la Chiesa è in cammino e i cambiamenti si stanno compiendo.
Essere popolo di Dio e comunità
Una Chiesa in ascolto che vede la partecipazione attiva dei laici e delle laiche “è già realtà”: ha precisato padre Marco Tasca, ministro generale dell’Ordine francescano dei Frati Minori Conventuali. “Nei sinodi diocesani c’è questa presenza”, ha aggiunto il francescano, con tutto il contributo che ne deriva: dovrebbe forse crescere “al livello episcopale”. Sulla questione è intervento anche padre Bruno Cadoré, maestro generale dell’Ordine dei Frati Predicatori. Secondo il domenicano, bisogna soprattutto valorizzare le “celebrazioni”, non tanto le “assemblee strutturate”. Quello che la Chiesa dovrebbe essere, infatti, è soprattutto una comunità. “I giovani”, ha insistito, “hanno bisogno di un luogo di appartenenza”, di “una famiglia, come si usa dire in Africa”: quello su cui bisogna puntare, dunque, sono le “cerimonie comunitarie”.
Promuovere una “cittadinanza universale”
Tra i temi emersi nel corso dell’appuntamento con i giornalisti, largo spazio ha rivestito anche quello delle migrazioni e dell’accoglienza. Padre Arturo Sosa Abascal, portando anche l’esperienza del Jesuit Refugee Service, ha messo a fuoco “tre segni dei tempi”: un sempre più diffuso “processo di secolarizzazione”; il “mondo digitale”, che stimola nuovi processi “educativi”; e il mondo multiculturale con le sue migrazioni. “Pensando a quanti sono costretti a lasciare tutto – ha detto – pensiamo a quanto stiamo diventando disumani”. Il preposito generale della Compagnia di Gesù ha insistito che gli ambiti di indagine sono due: i motivi che stanno dietro questi flussi, e il come promuovere una cultura dell’accoglienza. Due estremi di un tema delicato, al cui centro ci sono altre problematiche da considerare, primo fra tutti il tempo di permanenza nei campi. Alcune delle persone che finiscono in questi luoghi vi restano fino a 17 anni, ha riferito il gesuita, un tempo infinito nel quale è estremamente importante offrire anche “un servizio educativo”.
Fonte: vaticannews.va
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